DANIELE SEPE IN TOUR PER PRESENTARE "THE CAT WITH THE HAT” IL NUOVO ALBUM - Radio Città Benevento
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DANIELE SEPE IN TOUR PER PRESENTARE “THE CAT WITH THE HAT” IL NUOVO ALBUM

DANIELE SEPE IN TOUR PER PRESENTARE “THE CAT WITH THE HAT” IL NUOVO ALBUM

DANIELE SEPE IN TOUR PER PRESENTARE “THE CAT WITH THE HAT”, IL NUOVO ALBUM.

Il nuovo album è un omaggio al sassofonista Gato Barbieri, realizzato con brani che non fanno parte del repertorio dell’artista argentino ma, per dirla con le parole di Sepe “Nello scegliere cosa suonare non ho avuto dubbi: inutile ripercorrere brani suoi, giusto un paio, dopo tutto se uno vuole sentirli sente le sue versioni. Ma ho voluto scegliere una serie di brani, molti tradizionali, che ho sempre cercato di immaginare come li avesse suonati lui”.

Nel disco, come d’uso, decine di musicisti, provenienti dai quattro angoli della Terra. Ospiti dell’album sono il batterista statunitense HAMID DRAKE, già collaboratore di artisti come Herbie Hancock, Archie Shepp, Bill Laswell, Don Cherry, lo straordinario talento di STEFANO BOLLANI e di ROBERTO GATTO, DANIELE SANSONE (voce dei Foja), la cantante LAVINIA MANCUSI.

DANIELE SEPE – THE CAT WITH THE HAT

IL GATTO CON IL CAPPELLO

A metà anni ’70 dopo le lezioni in conservatorio mi piombavo a casa di Alberto, chitarrista in erba e col padre appassionatissimo di jazz. Una raccolta di vinili rari e bellissimi, e poi Alberto aveva un impianto hifi di tutto rispetto. Divano, canne e ascolto collettivo della qualunque per tutta la sera. Passavamo da Bix Biederbecke a Archie Sheep senza steccati.

Un giorno mettemmo sul piatto Under Fire, l’album di un sassofonista argentino chiamo “El Gato” Barbieri. Il titolo ci piaceva, erano gli anni della contestazione generale, gli anni in cui sentivamo Victor Jara e Initi Illimani, il golpe in Cile era appena avvenuto. E che sorpresa ritrovare in quell’album tanto della musica folclorica sudamericana che consumavo. E poi un fraseggio totalmente diverso, legato, melodico, mi ricordava un pò Pharoah Sanders o Coltrane, ma percepivo subito il luogo dove era nato e la lingua che parlava “El Gato”, anche solo quando suonava il sax.

Fu un’illuminazione: allora si può fare jazz tenendo conto delle proprie radici culturali, io sono nato a Napoli, papà ascolta Matteo Salvatore e Sergio Bruni, non Frank Sinatra o Bing Crosby.

El Gato mi aveva indicato una strada che ho seguito negli anni a venire.

Mi procurai il procurabile, non era semplice procurarsi dischi in quegli anni, internet era lontana da venire e alla radio trasmettevano Umberto Tozzi.

Fenix, The third world, Chapter one, Bolivia, El pampero, e cominciai a consumarli. Montammo anche un paio di brani, Maria Domingas di sicuro ricordo.

Passarono gli anni, conoscevo altri sassofonisti, studiavo Parker e Rollins, il fraseggio, il bop, quelle cose la. Non esisteva il Real Book qua a Napoli, trascrizioni men che mai, si faceva tutto da soli ascoltando e trascrivendo, spesso male, accordi e melodia.

Finito il conservatorio mi barcamenavo tra new wave napoletana, qualche gruppetto jazz, un po di musica classica, ma soldi non ne giravano e a casa non si navigava nell’oro. Quando mi arrivò una telefonata di un arrangiatore dalla Zeus, mitica e storica sala di registrazione situata sotto il pavimento della Galleria di Napoli, il posto dove si incontravano tutti i cantanti e musicisti napoletani del giro matrimoniale e, come si dice ora, neo melodico, capii che era arrivata un occasione da non perdere, che potevo mettere a frutto la mia scienza per fare un po di soldi. Dovevo fare bella figura. Suono, intonazione e ovviamente tutte le belle cose che avevo imparato sui dischi.

Andai a fare questo turno di registrazione pieno di idee eroiche. Presentazioni, conosci questo conosci quello, hai studiato con tizio hai suonato con Caio, ok vai di la e metti la cuffia.

Partì il nastro. Niente swing, nessun accordo con una settima, una nona, una cosa dove avessi potuto appoggiare una nota blues o infilarci uno di quei fantastici fraseggi che avevo imparato a memoria. Niente. La minore e mi maggiore, un re minore di passaggio la dove non te lo saresti mai aspettato. Tutti accordi perfetti. Infami triadi senza un’apertura. Non misi una nota buona. Dopo dieci minuti ero nel pallone e ormai non riuscivo nemmeno a tenere il tempo. Una figura di merda, mentre vedevo gli sghignazzi dietro al vetro del tecnico e dell’arrangiatore.

Tornai a casa piangente e bastonato.

Per settimane ripensavo a cosa era successo, cercavo una strada onorevole di fare un assolo in quella musica così elementare armonicamente. E dopo un poco mi venne in mente lui, El Gato. Melodia, suono, anzi suono graffiato come si dice, quello che esce da un sax quando oltre che soffiarci ci canti anche dentro allo strumento.

Non so perché mi diedero un’altra occasione e questa volta lasciai il segno. Da allora mi si aprirono le porte degli studi napoletani. Tutti li ho segnati. Nino D’Angelo, Carmelo Zappulla, Roberto Murolo, Eduardo De Crescenzo, Mia Martini, Gigi Finizio, Franco Califano, Peppino Gagliardi… e poi i fantastici arrangiatori dell’epoca, quelli che fanno musica spesso tremenda, ma che hanno studiato composizione e orchestrazione con Martucci o Di Martino, spesso le colonne dell’Orchestra Rai di senza Rete, Eduardo Alfieri, Augusto Visco, Enzo Di Domenico, Gianni Desidery, Tony Iglio, Tonino Esposito, Peppe Vessicchio, il grandissimo Antonio Balsamo.

Ho imparato molto in quelli anni, e tutte cose che difficilmente avrei imparato alla Berklee, per disgrazia e per fortuna.

Mi ricordai di Gato già nel mio terzo album, mettendoci dentro la sua Yo no le canto alla luna, che poi scoprii essere una canzone di Atahualpa Yupanqui.

Gato indagava nel repertorio popolare sudamericano, considerava standards da suonare i brani che lo avevano accompagnato nell’infanzia, Piazzolla, Yupanqui, ma anche brasiliani, come Ismael Silva, di cui ci ha regalato una splendida versione di Antonico. Cercatela ha un testo bellissimo, non è il samba triste per la ragazza che non c’è più, parla di un amico musicista che è senza lavoro, disperato, ed è la preghiera ad un altro meglio piazzato a trovargli di come vivere.

In realtà Gato lo avevo già sentito, in un album della Liberation Orchestra, e poi in uno di Oliver Nelson, ma non ci avevo fatto caso.

Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di conoscere fantastici musicisti che con Gato hanno suonato, spesso per lungo tempo, Enrico Rava, Stefano Bollani, Roberto Gatto. E ovviamente li ho martellati di domande.

Il più prolifico è stato Enrico, ovviamente visto che hanno vissuto insieme per molti anni, le loro compagne erano cugine.

Mi raccontava Enrico che Gato impazziva, come tutti, per Coltrane. In argentina sapete che c’è una buona tradizione di lavorazione del cuoio, i gauchos, le selle, le finiture per cavalli, insomma Gato fece costruire una borsa per sassofono tutta in cuoio, con le iniziali J.C. e la spedì alla Impulse, la etichetta per la quale incideva Coltrane. Anni dopo Coltrane venne a suonare in Italia, Milano se non sbaglio, il quartetto storico, e Enrico e Barbieri partirono per l’evento. Tra il primo e il secondo set riescono ad infilarsi in camerino, trovano Coltrane con un mare di ance steso sul tavolo, e li a fianco la custodia regalatagli da Gato. Ma quella te l’ho mandata io! Abbracci e fratellanza. Dice che Coltrane si lamentava di aver suonato una merda, e stava impazzendo a trovare un ancia soddisfacente. Coltrane…

Dice che il Gato era più o meno come me nel parlare inglese, praticamente analfabeta. Vabbè io vivo a Napoli, ma lui ha vissuto decenni a New York, come avrà fatto?

Mi diceva Enrico che gli ultimi anni erano stati durissimi, e anche la moglie di Altan, Mara, mi raccontava che non se la passava niente bene Gato. Quando ha avuto un infarto ed è stato ricoverato in ospedale le spese mediche gliele pagò Clinton, per capirci.

Strano destino per un musicista che era partito come esponente del free più estremo e radicale, con Don Cherry, con Rava, con Dollar Brand e, come spesso capita a chi improvvisamente acchiappa il successo, che arrivò con Ultimo Tango, si è perduto poi nel cercare insistentemente di ritrovarlo producendo album tutto sommato bruttarelli, troppo teso ad inseguire il suono che andava per la maggiore. Ma sentitelo ad esempio con Pino Daniele, o Venditti, quando lo chiamavano a fare qualche tournée live o mettere un solo in una canzone. Una nota, una nota solamente, e sai che è Gato Barbieri.

 

Questo è un aspetto che mi ha sempre interessato più di altri nella musica e nell’improvvisazione: la riconoscibilità.

Prendiamo Shorter, due note, anzi nel caso suo due pause, e non hai dubbi, quello è Shorter. Non è il fraseggio, l’abilità, la tecnica sopraffina, il numero di note per battuta, è la pronuncia, il suono, l’economia nel produrre melodia. Dexter Gordon, Sonny Rollins, mi hanno sempre inticchiato più di altri, mi è capitato di vedere un film abbastanza commerciale americano, sentire una nota di soprano e dire questo è Shorter, e così era.

Penso che un grande sassofonista come Garbarek debba qualcosa a Barbieri. Caso mai se lo incontro e glielo chiedo mi smentisce, ma a me il suo fraseggio legato, il tenersi lontano dai sentieri battuti e consumati del pattern, la cura nel cercare un suono personale, e non ultimo il fatto che usava la stessa imboccatura di Gato, me lo fanno pensare.

I Berg Larsen, non siamo in tanti a usarlo. E’ un becco un pò perdente, al confronto dell’Otto Link e le sue infinite imitazioni.

L’inesauribile Enrico mi raccontava che a Roma, dopo le serate alla trattoria dove spesso suonavano, parliamo degli anni ’60, miriadi di sassofonisti si avvicinavano a Gato per scoprire il segreto di quel suono possente. Lui gli faceva vedere il suo Berg, uno strettissimo 95, ma non gli diceva che passava le giornate con la lima in mano a modificarlo e farlo come voleva.

All’ epoca suonava un Conn Transitional, un magnifico strumento degli anni ’30, al quale aveva innestato un chiver di un Selmer, un ibrido, un animale strano. Lo si può ammirare nella copertina di Fenix. Poi quando era a New York gli arrivò la proposta di una serie di concerti in Europa, gioia, felicità e preparativi per la partenza. La moglie Michelle si portava appresso ad ogni viaggio una decina di valige. Arrivano tutti gli amici della scena free di New York a salutarli, chiamano due taxi per andare all’aeroporto, caricano le valige e quando arrivano in aeroporto si accorgono di aver lasciato il sax fuori il portone di casa.

Lo rimpiangerà per sempre quel Conn.

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